La questione se esista o meno una continuità della coscienza dopo la morte è stata in India fin dai tempi più antichi un importante argomento del dibattito e della riflessione filosofica. Quando però si considerano questi problemi da un punto di vista buddhista, dobbiamo tener presente che la questione della continuità della coscienza e la questione della natura dell’io o del sé sono strettamente collegate.

Secondo la letteratura classica buddhista, una persona è un’entità che possiede cinque aggregati interconnessi, noti tecnicamente come i cinque aggregati psicofisici. Si tratta dell’aggregato della coscienza, quello della forma (che include il corpo fisico e i sensi), quello delle sensazioni, quello della discriminazione e quello delle tendenze motivazionali. In altri termini, esiste il corpo, il mondo fisico con i nostri cinque sensi, ed esistono i vari processi dell’attività mentale, le nostre tendenze motivazionali, la nostra facoltà di definire e di discriminare gli oggetti, le nostre sensazioni e la sottostante coscienza o consapevolezza.

Tra le antiche scuole di pensiero che accettavano la nozione di una continuità della coscienza, esistevano parecchie scuole filosofiche non buddhiste che consideravano l’ente, l’io o il sé, che trasmigrava da un’esistenza all’altra, come unitario e permanente. Essi ritenevano anche che questo “sé” fosse autonomo nei suoi rapporti con i componenti psicofisici che costituiscono la persona. In altre parole, credevano o supponevano che esistesse un’essenza o un “anima” indipendente dal corpo.

Il termine tecnico karma si riferisce alla relazione dinamica tra le azioni e le loro conseguenze (azioni passate). Esso comprende nel suo aspetto causale sia le azioni reali (fisiche, verbali e mentali) sia le tendenze e le tracce psicologiche create nella mente da tali azioni. Dopo l’esecuzione di un’azione, si forma nel continuum mentale una catena causale che prosegue nel presente e nelle successive rinascite. Questo potenziale karmico si attiva quando interagisce con determinante circostanze e condizioni, portando alla fruizione dei suoi effetti. La dinamica delle azioni passate ha due caratteristiche fondamentali: 1) non si sperimentano mai le conseguenze di azioni non commesse; 2) il potenziale di un’azione eseguita una volta non svanisce più, a meno che non si mettano in atto rimedi specifici.

La parola sanscrita mantra nasce dalla fusione di due sillabe mana (pensare, adorare) e traya (strumentalità), che significano rispettivamente “mente” e “protezione”. Si tratta quindi della protezione della mente dall’influenza prepotente delle percezioni e dei pensieri ordinari, che danno origine a stati di illusione, inibendo la piena espressione della natura buddhica. Più specificamente, il termine si riferisce a puro suono, che è la parola perfetta di un essere illuminato. Nella pratica rituale, si eseguono gesti delle mani o sigilli, che sono la risonanza del corpo buddhico, recitazioni di mantra, che sono la risonanza della parola buddhica, e visualizzazioni, che sono la risonanza della mente buddhica.

Nel Buddhismo, la mente è definita un processo dinamico che consiste semplicemente nella consapevolezza di un oggetto o di un evento. La sua funzione primaria è di essere consapevole dell’oggetto come di un tutto, mentre le modalità secondo cui ci si collega a specifici aspetti dell’oggetto sono definite fattori mentali. È importante comprendere che nel Buddhismo la mente non viene concepita come qualcosa di statico o come qualcosa che abbia una sostanza spirituale.

L’espressione “mente buddhica” è sinonimo di saggezza originaria. Benché tutti gli esseri senzienti posseggano potenzialmente la capacità di attuare la saggezza originaria nel loro continuum mentale, la confusione psicologica e le tendenze dell’illusione che corrompono la mente impediscono la naturale espressione di questo potenziale innato, sovrapponendogli la coscienza mondana.